venerdì 31 dicembre 2010

Capitolo 7 (Ultima parte)

   Andrea piegò il foglio e si rimise a sedere.
   Marco aveva lo sguardo fisso su di lui. Con le dita della mano tamburellava sul tavolo un motivetto. Si voltò a guardare Francesco, il quale non sembrava affatto preoccupato dell’intera faccenda. Decise di rompere il ghiaccio: “Allora Andrea, cosa c’entra questa lettera di minaccia di uno psicopatico con il nostro problema?”. Tornò a fissarlo.
   “Allora proprio non capite”, Andrea teneva la testa leggermente inclinata da un lato, lo sguardo sul pavimento.
   “Qui c’è una guerra in atto. Non stiamo più parlando di stile o altro. Qui c’è un mostro dai denti aguzzi che sta emergendo in tutto il suo squallore”.
  “Ah”, annuì Francesco, “Qui l’unico problema sono le vendite a picco, il sabotaggio ad un industria culturale sul suo nascere. Non stai prendendo troppo sul serio una semplice querelle e un paio di lettere di fan psicopatici?”
  “No!”, rispose Andrea. “Luana era solo l’inizio. Queste persone avevano un bisogno estremo di mostrarsi. Dovevano emergere dal buio del consumismo. Quella che cercano è azione. Quello che cercano è potere decisionale. Noi la stiamo vivendo nel nostro settore. Ma questa tendenza è generale”.
   “Boom! La fine del mondo”, disse Francesco.
   “Francesco tu fai finta di non capire. Qui c’è in gioco il nostro futuro. Loro vogliono diventare il potere, il fulcro, l’accentratore della cultura. Diventare l’unica possibilità”.
   “Ma cosa diavolo c’entra tutto questo con le accuse di sintassi, punti di vista errati, raccomandazioni, e altre stronzate?”
   “Luana, a sua insaputa,  è un cavallo di troia. Lei ha organizzato, ha fornito dei motivi, ha trasmesso delle idee, ha creato una comunità. Ha adunato le energie di persone che si annoiavano a morte. E qualcun altro sa come sfruttarle”.
   “Andrea, tu…”
   “Pazzo?”
   “Non volevo dirlo, ma…” Francesco cercò di difendersi.
   Marco si alzò, prese il suo bicchiere di whisky e lo svuotò. “Cosa proponi di fare? Potremmo contraddirli sul loro stesso terreno, migliorare le nostre opere, far crollare le loro accuse”.
   “Inutile, il loro castello è costruito su solide basi. L’unica alternativa possibile è difendere dall’assalto il nostro castello e iniziare a prepararsi al peggio”.
      

Capitolo 7 (Seconda Parte, ore 12:00)

   “Caro scrittore di una Grande Casa Editrice, io non sono un tuo ammiratore. Potresti definirmi una persona alquanto invidiosa. Sai, io ammiro gli scrittori veramente bravi, mentre nei tuoi confronti provo solo una feroce invidia. Perché tu non sei bravo, né capace, e né tantomeno hai del talento.
Diciamocela tutta: hai pubblicato perché ti sei fatto degli amici.
So che stai pensando che posso scegliere di non leggerti.
So che stai pensando che sono un pazzo.
So che stai pensando che non sono affari miei
Ma è qui che ti sbagli, perché tutta l’intera faccenda è un mio affare.
Voi, tu e i tuoi amichetti, avete inquinato la letteratura e ucciso i sogni e le speranze di aspiranti come me che ci mettono la testa e lo studio, e non come dite voi, il cuore.
Voi, tu e i tuoi amichetti, avete contribuito a creare un sistema nel quale la pubblicazione è una sorta di concessione divina ai propri accoliti da parte di padroni e baroni.
Voi, tu e i tuoi amichetti, avete permesso che oltre l’amicizia e la legge del mercato non vi siano altri criteri di selezione.
Grazie a voi, le coordinate di questo sistema cartesiano possono essere solo valori di paraculaggine. La meritocrazia, la qualità può essere considerata solo se rientra all’interno dei due criteri sopracitati. 
Ora, sappiamo benissimo, io e te, che non solo la vostra scrittura, tua e dei tuoi amichetti, è sciatta, noiosa, insignificante, insulsa, merda di cane, ma è anche una scrittura che uccide il pensiero, l’immaginazione. È uno stile che cerca di atrofizzare il cervello e la mente. Di interrompere il lavoro delle sinapsi. Di creare collegamenti tra le varie aree della mente.
Voi, tu e i tuoi amichetti, raccontate riassumendo, generalizzando, fiumi di parole che precludono l’uso della vista. Voi, tu e i tuoi amichetti, sapete solo concettualizzare. Ma un concetto che non ha forma è invisibile e vuoto.
Ora, sappiamo benissimo, io e te, che la posta in palio non si gioca sullo “show, don’t tell”, che io non sono uno di quegli idioti che segue come un povero demente la signora Luana nella sua, chiamiamola così, crociata. Io non sono uno di quegli idioti in cerca di sfogo.
Io non sono uno di quegli idioti in cerca di una comunità che dia un senso alla mia esistenza.
Io sono uno di quegli a cui sono state mostrate infinite possibilità.
Io sono uno di quegli a cui sono state promesse le chiavi del futuro.
Io sono uno di quegli a cui è stata preannunciata una vita da protagonista.
Invece, oggi, dopo innumerevoli sforzi, mi ritrovo a vivere e subire passivamente le vostre, tue e dei tuoi amichetti, storie vomitevoli, la vostra sciatteria e insolenza.
Ebbene, signor scrittore di una Grande Casa Editrice ho trovato una soluzione al problema.
Io e i miei accoliti (ben diversi da quei quattro poveri stolti che seguono la Luana, la cui unica aspirazione è insegnare loro a scrivere) abbiamo trovato la soluzione finale.
Le caveremo gli occhi, le taglieremo le mani, e le ridurremo il cervello ad una poltiglia. A te e ai tuoi amichetti.
Così, per puro divertimento. Una piccola ricompensa per questi anni così tremendamente noiosi.

Cordiali saluti, un suo fan.      

Capitolo 7 (Prima Parte, Ore 11:00)

  L’idea che ci fosse qualcuno a cui la sua scrittura non potesse piacere e che addirittura desiderasse cancellarlo da un ipotetico albo come scrittore non gli aveva mai, neanche lontanamente, sfiorato il cervello. L’idea stessa era ridicola. Come si poteva pensare di estirpare una capacità a un essere umano.
   Aveva sognato caffè letterari in cui discutere dei grandi maestri, attorniato dai migliori scrittori italiani e stranieri. Inviti, galà, cerimonie, premi e considerazioni. Riconoscimenti accademici, un ruolo primario all’interno della cultura italiana. Il pioniere del nuovo fantastico italiano. Al limite usare il fantastico come un cavallo di troia.
   E invece, altro che caffè letterari, era in riunione con altri colleghi in una gelida stanza senza finestre attorno a una tavola rotonda. A discutere delle contromosse da adottare contro Luana e i suoi accoliti. A cercare una specie di protezione dalle invasate lettere che arrivavano al suo indirizzo.
   “La situazione è sfuggita di mano. Ci stanno facendo il culo” Francesco ruppe il silenzio della camera. “La situazione è delirante. Ci troviamo a competere con una maestrina nevrotica ed esaltata che trascorre il suo tempo a cerchiare con una penna rosso sangue tutti i nostri errori”.
   “Parla per te Francesco. Io non faccio errori. Io seguo un mio stile”.
   “Sì, come no, Andrea”, Marco posò il bicchiere di whisky sul tavolo. Si passò la punta della lingua tra le sottili labbra. “Ammettiamolo, ci sta dicendo esattamente la verità. Molti di noi considerano la trama una dea suprema e lo stile e la tecnica…”
   “Marco, stai sviando la questione principale. Tutti noi siamo coscienti dei nostri limiti. Non è questo il problema”.
   “Allora, illuminaci d’immenso Andrea!”, sorrise Marco, riprendendo il suo bicchiere di whisky.
   Andrea si alzò, passò la mano tremolante sui capelli radi. Prese dalla tasca dei Jeans un foglietto di carta e lo spiegò. Osservò tutti i presenti prima d’iniziare a leggere in tono basso e duro.

giovedì 23 dicembre 2010

Interludio numero 2

"I quartieri residenziali sognano la violenza. Addormentati nelle loro sonnacchiose villette, protetti dai benevoli centri commerciali, aspettano pazienti l'arrivo di incubi che li facciano risvegliare in un mondo più carico di passione..."

J.G. Ballard, Regno a venire

domenica 12 dicembre 2010

Capitolo 6

   La parola chiave della ribellione: consapevolezza. Il verbo forgiato sulla sottile membrana del suo cervello. Come un vecchio film in bianco e nero riecheggiavano nella sua mente le parole di Burroughs: “Uno scrittore può scrivere soltanto di una cosa: di quello che c’è davanti ai suoi sensi al momento di scrivere… sono uno strumento di registrazione… Non presumo di imporre una “teoria”, una “trama”, una “continuità”… Finchè riesco a registrare direttamente certe aree del processo psichico posso avere funzioni limitate… il mio obiettivo non è quello di intrattenere…”.
   Inaccettabile.
   Era stata consapevole fin dall’inizio della sua meta. Educare alla buona scrittura. Alle buone storie. Scrittori come Burroughs erano i nemici. L’altra specie. Quelli che la tecnica è il nemico.
   Guardate cosa c’è sulla punta della forchetta: merda spacciata per un buon pasto. La loro scrittura è nuda, capace di produrre solo escrementi.
     “Dovevi avere più consapevolezza. Hai sottovalutato i tuoi discepoli”. Martin poggiò il bicchiere di Rhum sul tavolo.
    Luana tornò a concentrarsi sul discorso del suo ospite: “Ci sono sempre dei rischi. C’è sempre gente sopra le righe. Ho calcolato tutto”.
   Martin fece un cenno al cameriere, “Un altro”.
  Osservò il locale. I suoi discepoli erano chini sui propri taccuini. Gruppi di cinque persone intenti ad applicare regole e concatenare parole da sottoporre alla loro regina.
   Il suo laboratorio di scrittura.
   Martin si chinò in avanti, a qualche centimetro dal viso di Luana: “Forse, non hai capito bene il problema. La tua feroce ironia ha dato di testa a qualcuno. Sai di chi parlo. Se non sbaglio il tuo progetto era quello di svelare alcuni altarini e dare consigli utili agli aspiranti. Ma… da un certo punto di vista, qualcuno ha sbroccato”.
   Lei prese il succo all’ananas e bevve un sorso.
   “Cioè, qui non si tratta più… be’ ho l’impressione che si sia varcata la soglia”.
   Luana posò il bicchiere, si passò una mano sul labbro: “Stai subendo l’influenza del nemico, Martin. Qui non c’è nessuna guerra in atto. Qui si tratta solo di scrittura. Ci sono solo delle buone intenzioni e consigli per far risparmiare denaro ai lettori”.
   Martin prese dal tavolo una sigaretta. L’accese. Un respiro profondo. Un’espirazione densa di sgomento.
   “No, Luana. Ti sbagli. Io sono stato un tuo grande sostenitore e anche un sostenitore della libera scelta sia dello scrittore che del lettore. Sul mio blog sono riuscito a discernere tra una buona critica, proposte di letture e attacchi personali e mirati. Ho saputo differenziare tra anime di buona volontà e anime dannate. Io, al limite,  distribuisco consigli non impongo. Invece, il tuo marchio è diventato una spada di Damocle sulla capoccia degli scrittori. E il tuo blog si è trasformato da un porto per aspiranti scrittori e lettori in cerca di letture utili e interessanti ad una meta per boia e pseudo scrittori falliti. Si stanno creando fazioni e risentimenti razzisti anche verso alcuni tipi di lettori”.
   Luana chiuse le mani. Strinse forte. Le lunghe unghie a scalfire la sua pelle. Sbatté i pugni sul tavolo. Gli aspiranti smisero di scrivere e il locale si bloccò sospeso tra il fumo e l’opaca illuminazione.
   “Adesso basta. Io non nascondo nessun interesse in quello che faccio. Non ti permetto di accusarmi di nessun tipo di frustrazione. Le tue sono solo paranoie dettate dal tuo fallimento come blogger. Sono le tue recensioni, infarcite di stronzate ad annoiare i lettori. Sei tu che aspiri. Se non ricordo male, tu sei quello che un tempo scriveva racconti sperando in una pubblicazione. Io non ho mai avuto aspirazioni in tal senso”.
   Martin si alzò. Spostò la sedia e raccolse il suo pacchetto di sigarette. Fini il suo Rhum.
   “Luana, mi dispiace. Ho capito che hai già fatto la tua scelta. Speravo in una tua…  pazienza. Ci tengo a precisare che sei sceso allo stesso livello del tuo nemico: la diversità è invidia”.
   Lei spinse il tavolo colpendo Martin alla coscia.
   “Basta! Non ti permetto di offendermi in casa mia. Sparisci”.
   Martin mentre si palpava la gamba ferita, fece un inchino e sparì, lasciando dietro di sé una striscia di granuli di pixel.
   Luana rivolse lo sguardo ai tavoli. I suoi discepoli la osservavano con occhi sbarrati e scintillanti. La regina si portò la mano al cuore. “Show, don’t tell!”. Loro avvicinarono le mani al cuore e ricambiarono all’unisono: “Show, don’t tell!”.
   
   Vincenzo, con la mano al cuore, accanto ad alcuni fedelissimi, sorrise socchiudendo gli occhi. “Show, don’t tell or die”. Sulla punta della forchetta c’è solo merda.    

domenica 5 dicembre 2010

Capitolo 5

    Avalon:
   “Estrapolare frasi da un più ampio contesto non rende giustizia alla qualità del testo. Questo serve solo a decontestualizzare e portare acqua al proprio mulino”.

   Everton:
   “@ Avalon:
    Tu non vuoi proprio capire. Non si tratta solo di espressioni di cattivo gusto come “il ragazzo era vecchio”, “Lara era bellissima, di una bellezza tutta femminile”, che non mostrano nulla e fanno venire il vomito, ma anche di logica. Perché il protagonista non ha ucciso il cattivo quando ne ha avuto la possibilità sotto il ponte di Taur? E poi siamo stufi delle stesse storie. Basta con questi orchi e orchetti”.

   Avalon:
  “@ Everton:
   Si vede che non hai letto il mio romanzo, ma ti sei fermata alla recensione di Loris, perché non c’è nessun orco nella mia storia. Poi se il protagonista non ha sferzato il colpo decisivo al nemico lo potrai capire solo seguendo il corso della storia. Ma del resto voi sapete sempre come vanno certe cose, no? Voi avete il vostro manuale e le vostre stupide regole. Sapete dove dovete mettervi le vostre ridicole critiche? Siete solo gente frustata e invidiosa”.     
  
   Vincent:
  @ Avalon:
   “Tu sei un Autore Affermato la cui padronanza delle tecniche di scrittura è certificata dalla pubblicazione con una importante Casa Editrice, per cui fai bene a non ascoltare critiche che, diciamo chiaramente, al 99% sono frutto di invidia spacciata per competenza”.
  
   Disconnessione in atto.
   Troppo facile. Sì, tutto troppo semplice.
   Grazie a quest’ultimo colpo, Vincenzo, era riuscito a infliggere al suo nemico l’ennesima sconfitta. La sua arroganza e la sua vanità erano un bersaglio troppo evidente. Del resto il suo nemico si sentiva una rockstar della letteratura.
   L’unica alternativa valida che il suo nemico era stato in grado di adottare era l’esposizione di un’improbabile erudizione al servizio dei suoi pochi e fedeli lettori. Un paravento per salvare le imbarazzanti storpiature del suo stile. Non sapeva scrivere, questo lo sapeva bene. Allora, aveva deciso di inventarsi intellettuale. Risultato: una patetica proliferazione di post sulle ricerche storiche dell’ambientazione del suo prossimo romanzo a sigillo della sua dedizione e autorità. Come se questo servisse a migliorare la sua scrittura e la sua vena artistica. Come se l’informazione potesse vantare un diritto divino sulla capacità narrativa di un qualsiasi geniale artigiano.
   Una storia di merda che tratta del nazismo è pur sempre una storia di merda. Una storia meravigliosa che parla del nazismo è pur sempre una storia meravigliosa. Cazzo, non possiedono la stessa alchimia.
   Eppure questi risultati non portavano a nulla. C’erano ancora tanti lettori che lo seguivano e che erano disposti a continuare a leggere tanta altra merda.
   Due possibilità si stagliavano all’orizzonte per Vincenzo: lasciare perdere e concentrarsi sulle potenzialità della sua scrittura o convincere la regina a passare al piano c. Ma la regina non avrebbe mai appoggiato questa scelta. Forse qualcun altro, però, si sarebbe convinto. In fondo un po’ di terrore reale avrebbe scosso l’ambiente.
   Vincenzo alzò la visiera a scacchi e si tolse il casco. Poggiò il portatile sul pavimento. Si alzò dal divano e andò verso il muro tappezzato dalle foto del suo nemico. Allungò lo sguardo verso uno foto che lo ritraeva con il viso sorridente. Appoggiò la sua mano accanto alla faccia bianca del suo nemico.
   “Quanti soldi mi hai fregato, eh? Quanti dei miei risparmi ti sei intascato? Tu mi hai rubato il sogno. Hai preso il mio posto. Dovrei esserci io al posto tuo. Io con il mio grande romanzo”, la mano di Vincenzo strinse la foto. I lati iniziarono a staccarsi dal muro, gli occhi del nemico si persero all’interno del palmo di Vincenzo.
   “Pagherai caro. Pagherai insieme ai tuoi amichetti. Questo è il tempo del riscatto. Il tempo del riscatto del verbo sommerso e dimenticato. Le nostre parole diventeranno armi. Le nostre parole diventeranno carne. La nostra carne divorerà la vostra carne. Sarete consumati, mangiati e vomitati”.
   Strappò la foto dal muro, arrotolandola.
   Avvicinò quella piccola palla alla bocca e iniziò a divorarla.